
Il talento è un’idea, un luogo comune che utilizziamo per definire naturale qualcosa che è il contrario esatto della naturalezza.
Mi piace pensare che anche tu, leggendo queste riflessioni, possa uscire da questo luogo paludoso di insensate inesattezze.
Immagina la maestosa eleganza di una étoile, le straordinarie movenze di questa incantevole ballerina.
“Che talento!” esclama qualcuno, dalle retrovie.
Oh no, accidenti: ci risiamo!
Quest’idea di talento è una degradante semplificazione.
Quando guardiamo alla danzatrice che balla e la definiamo bravissima, talentuosa perché estremamente naturale, stiamo semplificando, riducendo la complessità.
Si sa, non c’è scelta migliore che ridurre la complessità, quando la cosa genera ricchezza di conoscenza o benefici esistenziali.
Ma non c’è scelta peggiore che ridurre la complessità, quando è essa stessa portatrice di significati simbolici e valoriali.
E la ballerina che arriva in alto, ci arriva per una complessità di fattori che non sono evitabili.
La danzatrice che interpreta Čajkovskij in modo così naturale e talentuoso, in realtà, ci piace proprio perché è totalmente innaturale.
Una ballerina che danza sulle punte è quanto di più innaturale ci sia ma, in qualche misura, il grado di abilità che lei ha raggiunto consente di ingannare noi stessi e di avvallare questo profondo equivoco del riconoscere il talento nell’artificio.
Sì, confondere il talento con l’artificio.
Nell’arte della danza, raramente siamo attratti dalla naturalezza, il naturale ci attrae poco e non ci seduce quanto l’artificioso, l’innaturale.
Amiamo la ballerina sulle punte che compie acrobazie ma che lo fa in un modo talmente naturale e compiuto dal punto di vista tecnico da poterci far dire: “ah, guarda com’è naturale, un talento innato”.
Così allo stesso modo, del pianista classico che suona un pezzo difficilissimo amiamo dire “suona tutto così naturale”.
Ed è proprio così: la naturalezza della ripetizione, della conoscenza assoluta, dell’allenamento ossessivo.
Abbiamo invece bisogno di illuderci che quel talento sgorghi dalla natura come fa una sorgente.
Abbiamo bisogno di questa illusione proprio quando abbiamo a che fare con una complessità di abilità acquisite a volte, non solo durante la vita del singolo ma, addirittura nel corso di diverse generazioni.
Spesso il talentuoso è proprio colui più culturalmente formato, spesso, accade che sia figlio d’arte.
Ovvie le cause pedagogiche e di esposizione, non di certo quelle infondate genetiche.
Ci saranno anche delle eccezioni, certo.
Non so se Picasso fosse un bambino bravissimo nel disegnare ma so che il talento è tendenza a essere spiccatamente abili in qualcosa che si è appreso nella maniera giusta, efficace, accurata.
Quando di una ballerina affermiamo che è naturale nel danzare, in realtà, stiamo dicendo che il suo livello tecnico è talmente raffinato, acculturato, educato che a noi pare naturale, innato.
Proprio per questo motivo, dovremmo trasformare “le viene naturale danzare” in “le viene culturale danzare”.
Questo anche per ricordare che la cultura è diseguale e assolutamente non democratica.
Mi piace chiudere questa riflessione, lasciando due domande aperte: perché abbiamo bisogno di riconoscere la natura in qualcosa che è puro artificio, complessità tecnica, allenamento? Se la cultura non è democratica, qual è la misura del merito?
Scambio di pensieri tra Barbara D’Annunzio e Andrea Sales
Foto di Michelangelo Buonarroti | da Pexels
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Anch’io ho una domanda: il gesto che tende alla perfezione ci emoziona?