
Dopo la raccolta dell’uva, mi siedo sotto le ultime viti.
Non riesco a non pensare al senso di queste giornate frenetiche.
Sono molte le cose da pagare.
I dazi, già pagati, del peccato.
Le ombre dei timori.
I rumori, già sentiti, del tumore…
Sento le gambe stanche, la mano sinistra che scava tra i ricordi dell’impalpabile.
Emozioni liquide di piacere che bagnano la manica della mia inutile giacca.
Perché è bianca l’idea della morte che riprende a scorrere tra le dita e la gloria.
Il violino suona. E dopo averlo dissezionato, pezzo per pezzo, con la donna che amo e uno sconosciuto familiare, sento immagini nuove.
Di me. Di un letto inadeguato.
Mi resta solo uno scatto senza collocazione, perché quella fotografia salva l’attimo della mia felicità, uccidendo il tempo.
E il suo scorrere indelicato.
Mi succhio l’indice, gustando l’acre di quell’uva che mi lega a un nonno astemio che non ha mai raccolto uva.
Voglio disegnare nove sentieri da camminare a piedi nudi.
Ora.
Il resto può aspettare.
Dopo la raccolta dell’uva, ho scritto queste parole su un semplice pezzo di carta, seduto sotto le ultime viti rimaste da potare.
Del resto, tutto può aspettare.